La recente sentenza della Corte d’Appello di Genova ha sollevato un importante argomento di discussione riguardante la violenza delle forze dell’ordine nei confronti della stampa durante eventi di protesta. Situazioni come queste non solo minano la sicurezza dei giornalisti ma pongono anche interrogativi sulla libertà di stampa e sul diritto di informare nel nostro paese.
Il 23 maggio 2019, il giornalista Stefano Origone, corrispondente per la testata Repubblica, si trovava a Genova per documentare una manifestazione di CasaPound. Durante gli scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine, Origone è stato brutalmente aggredito da quattro agenti di polizia. Le manganellate e i calci che ha subito hanno portato a una condanna per lesioni volontarie aggravate. La reazione violenta degli agenti ha suscitato una ripercussione legale, con la Corte che ha accolto la richiesta di giustizia da parte della vittima.
Dopo l’aggressione, Origone ha descritto l’esperienza in modo intenso, sottolineando il trauma subito. Ha dichiarato: “Ho pensato di morire… non smettevano più di picchiarmi.” La gravità di quanto accaduto non è soltanto riscontrabile dalle parole del giornalista, ma anche dal giudizio legale emesso in seguito. La Corte ha riconosciuto che l’uso della forza contro di lui era ingiustificato e sproporzionato rispetto a qualsiasi comportamento potesse aver avuto.
Il percorso legale che ha portato alla condanna degli agenti è stato lungo e complesso. Inizialmente, i quattro poliziotti erano stati condannati a soli 40 giorni di reclusione, una pena considerata troppo leggera rispetto alla gravità del fatto. La procura ha dunque presentato un ricorso, evidenziando che le lesioni inflitte a Origone erano dolose, piuttosto che colpose. La Corte d’Appello, dopo aver riesaminato il caso, ha emesso una nuova sentenza stabilendo un anno di reclusione, pena sospesa dal condizionale, per i poliziotti coinvolti.
Questo caso ha messo in luce difficoltà e tensioni tra le forze dell’ordine e i media durante gli eventi pubblici. La scelta del rito abbreviato da parte degli agenti riflette una strategia difensiva, ma le evidenze presentate durante il processo hanno costretto la giustizia a riconsiderare la loro posizione. La reazione della procura, che ha combattuto per una condanna più severa, mostra l’importanza attribuita al rispetto dei diritti dei giornalisti.
Un capitolo significativo è stato aggiunto dalla decisione della Cassazione, che ha ritenuto che la sentenza di primo grado fosse incoerente. Secondo gli Ermellini, non c’erano prove di aggressione da parte di Origone; egli si trovava in una posizione di totale difesa. Gli agenti avevano basato la propria azione su una presunta minaccia che non era mai stata concretizzata. Questo aspetto è stato sottolineato nei documenti della corte, la quale ha evidenziato come l’errore di valutazione sia stato determinante nel succedersi degli eventi.
La Corte ha inoltre considerato fuorviante l’interpretazione secondo la quale i poliziotti avrebbero scambiato il cronista per un manifestante ostile. In tal modo, hanno fornito un’importante salvaguardia per la libertà di informazione, stabilendo che anche in situazioni di conflitto, il lavoro dei giornalisti deve essere protetto.
A distanza di cinque anni dall’accaduto, Origone si trova ancora in attesa di un risarcimento da parte del Ministero dell’Interno. Le ferite psicologiche e fisiche subite influenzano ancora oggi la sua vita e la sua professione. Ha dovuto affrontare un periodo di assenza dal lavoro a causa delle lesioni. La situazione solleva interrogativi sulla tempestività e sull’efficacia dell’azione legale nei confronti di chi subisce atti di violenza mentre esercita il proprio diritto di informare.
Il riconoscimento giudiziario dell’ingiustizia subita da Origone serve non solo a fornire un certo livello di sollievo per le aggressioni subite, ma costituisce anche un messaggio forte e chiaro: la violenza contro i giornalisti non può essere tollerata e deve essere punita.